Dovete immaginare che l’arca esiste e che sta navigando nel grande mare dei luoghi comuni. Circondata da rifiuti, l’arca continua imperterrita il suo viaggio verso l’isola che non c’è, verso il futuro di un nuovo impero fondato sul rispetto della biodiversità. Quello dell’arca è, in effetti, l’unico futuro possibile. Per l’uomo non c’è alternativa, l’unica via di salvezza è quella di saltare su e di ricominciare ad assaggiare le infinite forme che la natura crea. Per esempio la biblica manna, « segno dell’alleanza tra uomo e natura » come ricorda Giulio Gelardi, il contadino prescelto per « continuare a raccogliere la manna nella valle che congiunge Pollina a Castelbuono in Sicilia ».
Ma che cos’è la manna ? La manna è la linfa zuccherina che si ottiene praticando delle incisioni sulla corteccia del frassino nel momento in cui la pianta è in amore. Venendo a contatto con l’aria e il caldo dell’estate siciliana il succo condensa diventando appunto manna. Questo cristallo ricco di proprietà digestive, di sali minerali, decongestionante, espettorante, calmante ed emolliente è anche un ottimo dolcificante naturale che può essere usato anche dai diabetici perché non altera il livello glicemico nel sangue. Ad oggi, sono stati selezionati circa 200 presidi in Italia e 120 nel resto del mondo.
Dal 2003 la fondazione Slow Food lavora al progetto « Arca del gusto » e cioè all’idea di salvare dall’estinzione le piccole produzioni di eccellenza gastronomica minacciate dall'agricoltura industriale, dal degrado ambientale e dall'omologazione. L'Arca del Gusto cerca, cataloga, descrive e segnala sapori quasi dimenticati di tutto il pianeta, dall’appena citata manna ai fagioli marroni (brown beans di Öland Island in Svezia. I prodotti dell’Arca, altrimenti destinati a scomparire, rientrano così nel circuito produttivo e commerciale e diventano al contempo il veicolo per la comunicazione del territorio dal quale provengono e di cui sono il frutto.
L’Arca si mostra in tutta la sua varietà al Salone del Gusto di Torino, ogni anno a fine ottobre. Un passaggio al Salone è dunque una grande occasione per monitorare lo stato di salute della terra e non meno di assaggiare tutte le specialità presenti al contempo in questo straordinario contenitore delle eccellenze. Ma come giudicare la vitalità del pianeta e cosa pensare di tutte queste forme inusitate? Beh, direi che il criterio di base potrebbe essere lo stupore. Stupore nell’ascoltare la storia dei prodotti, come quella magnifica e mitologica del miele di Ohia Lehua, un arbusto della famiglia delle mirtacee endemico delle isole delle Hawaii. Si racconta che Pele, la dea del vulcano, s’innamorò perdutamente del giovane Ohi’a. Ohi’a rifiutò le attenzioni della grande dea poiché era innamorato di Lehua. Per vendicarsi, Pele trasformò Ohi’a in un albero. Furono gli altri dei, impietositi dal lamento di Ohia, a trasformarla nel fiore dell’albero. Si dice che quando sbocciano i fiori di Lehua, la pioggia arriva, come lacrime di Ohia…Il miele di Ohia Lehua è fresco e non troppo dolce, sa di frutta tropicale e fiori. Ancora un segreto: il legno di Ohia Lehua è ignifugo!
Ancora stupore nella comprensione di lingue sconosciute come il brasiliano parlato da un produttore di Andirà-Marau, nel bacino dei due fiumi omonimi, a cavallo tra gli stati di Amazonas e Parà. Questo rappresentante della tribù dei Sateré Mawé mi spiega che il nettare di canudo è uno specialissimo miele prodotto da un ape selvatica che non pica (punge). È molto meno dolce del miele che conosciamo e soprattutto più liquido e saporitissimo. I Sateré Mawé sono, con le api selvatiche canudo, i responsabili dell’impollinazione di almeno un’80% delle specie vegetali della foresta amazzonica. E già, senza le api la vita sulla terra non sarebbe possibile e come mi spiega Luigi Manias, apicoltore sardo di rara sensibilità, nemmeno la bellezza il cui simbolo sono proprio i fiori.
Ma per finire il discorso sul lavoro dei Sateré Mawé, non posso non ricordare la lingua secca del gigantesco pesce Pirarucu (tipico abitante dei fiumi locali) che viene usata come raspa per grattugiare i pani dell’energetico guaranà, cibo preferito delle popolazioni locali e ormai coadiuvante nelle diete degli sportivi di tutto il mondo.
Al Salone si passeggia dunque tra una regione e l’altra dell’Italia e del Mondo e tutto fa stupore: le patate dolci di Pampacorral, il testarolo artigianale pontremolese, le vecchie varietà di mandorle di Bostanlyk, l’umbù e la baru nut del Brasile, il pinolo di araucaria della Serra Catarinese, il cece di Vicereale, il miele di nespolo di ape nera sicula, il cavolo di fossa delle Alpi di Fischbacher e Wechsel, il melone d’inverno Purceddu d’Alcamo, i Cuddrireddri di Delia (dolcetti per le castellane), il Motal delle province armene di Gegharkunik, Kotayk e Shirak, la patata dlla Bisalta di Cuneo, il lonzino di fico della Serra de’ Conti Marche, il chinotto di Savona, il parmigiano reggiano prodotto con il latte di Vacche Rosse, il sale dolce di Cervia, le mortadelle di Campotosto, le nocciole “Tonde e Gentili” del Piemonte, l’uvetta Abjosh della provincia di Herat in Afghanistan, le mandorle di Avola, il fagiolo bianco di Controne, …Ci sono poi le specialità specialissime come i Nocciolini di Chivasso e il mandorlato del Torronificio Scaldaferro.
Prodotti che continuano la grande tradizione italiana di qualità e che sono l’esempio per quello che un giorno diventerà il mondo se tutti decideranno di dire sì solo al meglio che la natura sa offrire. E, se ho ben capito, è questo il fine a cui tende Slow Food, associazione politica rivoluzionaria che pacificamente ridona voce alla natura e alla bellezza isolando la logica della quantità e dell’accumulo in un angolo d’inutilità. Tutto è qui perché c’è amore, amore nel continuare una tradizione che dura da secoli e secoli e la cui origine si perde nell’origine del mondo di cui l’uomo, al pari delle altre creature, è parte integrante. W le api, w la natura!